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Sguardi Attraverso | Testimonianza di una libera cittadina

Storia di Susi

Un cielo, le nuvole

Per caso e non per caso

Fu il caso, si dice, o forse non fu per caso che conobbi Giulia molti anni fa. Una serata proposta da un amico in una sala di milonga anche se non ero, io, una danzatrice di tango. Tuttavia dissi di sì a questo invito. Per caso o non per caso? Da quella serata in cui non ballai la milonga sono accadute molte cose con la danza.

Io e Giulia avemmo modo di conversare, conoscerci e rimasi stupita quando mi propose di entrare a far parte della scuola. Avevo 54 anni e mi chiedevo come potessi mai danzare in una compagnia a questa età. Si, avevo amato la danza da bambina ma non era stata la mia strada. Risposi un sì poco convinto pensando che tutto finisse dopo queste nostre parole. Invece… il caso o non il caso? Fui contattata e così si aprì per me questa nuova esperienza. Fui a disagio nei primi tempi. Non capivo quella danza. Ero sconcertata da quei movimenti, quell’espressione così… libera. E’ danza contemporanea, mi dicono. Ero riluttante, non pensavo di riuscire, di poter danzare in quel modo. All’inizio fu dubbio, perplessità. Ma superai il gradino della resistenza a sperimentarmi. Rimasi e danzai. Grazie agli inviti di Giulia ebbi modo di partecipare a progetti dove la danza si fa veicolo, mediatore per offrire alle sofferenze e fragilità umane dei porti da cui partire.

Dieci anni fa Giulia mi disse: “Voglio portare la danza in carcere, vuoi partecipare anche tu?”, ecco, io non ci pensai su nemmeno un secondo, risposi un sì pieno. L’idea di far parte di un progetto che coinvolgesse persone confinate in spazi contenuti era per me molto coinvolgente. Portare la danza, che significa assoluta libertà, in un luogo che esprime “limitazione”, mi ha fortemente entusiasmato. Ho accettato subito. Certo anche con timore. Sarebbe stata la prima volta che entravo in un carcere, non conoscevo le dinamiche di questi spazi e non immaginavo come sarebbe stato l’incontro.

Entrai dunque a far parte di un gruppo che periodicamente si recava nel carcere di Verziano. Gradualmente e non senza difficoltà nacque la relazione con detenuti e con altre persone che vivevano il carcere. Per me fu un tempo di apprendimenti reciproci, di sostegno, di sperimentazione, di ricerca condivisa. Si stava costituendo una comunità che danzava insieme.

Quindi per caso, ma non solo, ho intrapreso questo percorso. Un amico, un’unica serata e da lì è nato tutto questo. L’amico ha involontariamente congiunto due sponde. Una sincronicità necessaria allo sviluppo della mia esistenza. Solo più tardi ci si rende conto dell’importanza di piccoli istanti nati in una sera. Lo realizzi dopo avere sentito crescere una maggior consapevolezza e soprattutto il cambiamento interiore che questa esperienza porta. Comprendi che l’affermazione “una persona non cambia mai per la sua indole”, è un modo di dire privo di senso. Sono convinta che invece si può cambiare e in meglio. Non tanto per dimostrare risultati, bensì per stare meglio con se stessi. Si può intraprendere la via del cambiamento non per diventare perfetti, no, ma semplicemente per riconoscere e riconoscersi.

Scarpette rosse

Da bambina mi piaceva muovermi, in qualsiasi modo e forma, ma non frequentavo alcuna scuola di danza. Resta uno dei miei più bei ricordi di bambina un anno della festa di Santa Lucia in cui trovai un magnifico paio di scarpette da ballo rosse. Innumerevoli furono i tentativi per restare su quelle punte! Dove saranno ora non lo so. Ma bambina Susi continuava ad inventarsi giochi che contenessero piroette e voli, fonti di grande gioia e libertà.

L’esperienza con Giulia ha riaperto una passione infantile, mantenuta sia nell’adolescenza che dopo…le domeniche pomeriggio a ballare in una stanza di una casa; oppure insegnare a mio fratello maggiore qualche passo di danza moderna.

Cos’è per me la danza? Qualcosa di molto intimo. Che esce spontaneamente. Movimento e libertà. La bambina Susi sentiva questo soffio di libertà. Perché è espressione. Se non riesci a dire con le parole quello che pensi, lo puoi dire danzando. Ed è questo che ho recuperato con il tempo. Succede di dimenticarsi di queste prime sensazioni, di queste prime volte… però questo l’ho ritrovato o forse l’ho riconosciuto un’altra volta incontrando la danza contemporanea, perché è decisamente una forma di danza che offre qualcosa di più, dove non c’è limite al movimento: è il superamento di una forma espressiva prestabilita e codificata. È l’esperienza di ascoltare quello che senti intimamente e lo puoi dire con un qualsiasi gesto. Non c’è regola ma la voglia e la libertà di esprimere la propria voce interiore e lo puoi fare anche solo alzando un dito. Questo è già movimento di danza, è il recupero di una libertà di espressione personale senza codici; la costruzione di un proprio linguaggio attraverso il movimento. Da lì, la possibilità di comunicare in assenza di parole e di far capire che sei lì non solo per te stesso ma per condividere con altri.

Entriamo a Verziano. Le prime volte… la prima volta…

Cosa pensavo? Cosa sentivo intimamente? Un sentimento mi attraversava ed era strettamente connesso ad un pensiero: la curiosità rispettosa di come si dipana la vita in carcere; di come un soggetto umano può vivere chiuso in un luogo per lungo tempo; sperimentare se dentro di me abitavano pregiudizi. Ma anche sentivo la voglia di mettermi a disposizione del progetto e delle persone che in carcere avremmo incontrato. Desideravo poter far qualcosa per loro che, pur avendo commesso qualcosa di sbagliato, ero certa non mi avrebbero fatto alcun male. Forse era un po’ presuntuoso pensare di farli star bene, ma questo pensiero mi piaceva ugualmente.

Mi sono avvicinata a questa prima volta senza paure, con tanta voglia di esserci e senza lasciarmi condizionare da quel luogo così poco accogliente. Certo… nell’entrare, i primi ostacoli… i tempi di accesso dilatati che rubavano minuti preziosi alla nostra permanenza, l’iniziale diffidenza del personale di sorveglianza, anche se giustificata dalla insolita natura del nostro progetto.

Mi ha colpito sin da subito la relazione fra chi custodisce e chi è custodito. È stata motivo di mie riflessioni che non sciolgono la complessità della questione. Difficile, secondo me, gestire tale rapporto considerandolo solo un lavoro. È evidente la differenza fra chi, da una parte, deve pagare un errore e dall’altra chi deve custodire. Ma in fondo mi pare di aver scorto che lì, in quel luogo, si può anche guardare con un’altra prospettiva e in tal modo ti accorgi che non vi sono differenze fra le due parti; le stesse fragilità, debolezze, chiusure. In entrambe le parti si percepisce la stessa dolorosa condizione esistenziale, perché di mezzo c’è l’animo umano, radice profonda. Due condizioni si trovano a doversi confrontare quotidianamente: quella di chi ha commesso un reato, forse perché non ha trovato altre strade possibili per dare forma alla propria vita, e quella di chi custodisce, impegnato in un lavoro complesso, a rischio di trappole relazionali e psicologiche, dove ritrovare il senso educativo e di accompagnamento umano è un patto da rinnovare ogni giorno con se stessi. Penso che questo lavoro debba essere motivato da una buona dose di passione. Il rischio è perdere la propria umanità.

Curiosità, voglia di fare, essere utile, insomma era questo che mi stimolava del progetto. Non era la mia prima esperienza di volontariato; già per alcuni anni impegnata con l’Associazione Telefono Amico. Un modo per dare un senso all’esistenza che mi fa star bene certamente insieme ad altri aspetti della vita.  Una forma laica di solidarietà umana, di mutuo aiuto. Perché l’aiuto è sempre reciproco.

Il desiderio di incontrare l’altro era molto presente e venivano meno le paure. Ciò nonostante non sempre è stato facile relazionarsi con i detenuti… noi, liberi, abbiamo dovuto confrontarci con persone che ogni giorno devono misurare e controllare ogni gesto. Una sfida importante affrontata interagendo con la danza che è diventata espressione di libertà per persone private di questo privilegio. Una relazione da costruire ascoltandosi e ascoltando attentamente.

E ho incontrato tanti volti. Se guardo a questi 10 anni li vedo tutti, alcuni un po’ sfocati, altri molto nitidi. Vedo i gesti scambiati nella danza. Con loro c’è stato un reciproco Dare e Avere. La danza fatta di sguardi, di movimenti, lievi sfioramenti e di rispettosi incontri dei corpi, ha dato vita ad una ’espressione individuale e collettiva sempre più intensa. Dopo i primi momenti di timidezza sorgeva lo stupore di potersi esprimere. Ed è stata apertura per quasi tutti, anche per la persona più chiusa. Quando sono entrata in Lyria anch’io mi chiedevo cosa stessi facendo mentre mi muovevo; mi giudicavo e in tal modo alimentavo quella voce che ci limita e ci imprigiona nella convinzione del sentirsi sciocchi e di non poterlo fare. Superare quel gradino, per me e per gli altri, ha significato trovare dentro di sé il coraggio di lasciare le paure e la vergogna. Giocare con la propria libertà. È anche un po’ ritornare a scoprire gesti fanciulli, il gioco, le smorfie, i movimenti strani e magari contrari a quelli che fai abitualmente. Un ciao anziché con le dita della mano aperte perché non si potrebbe fare anche con le dita chiuse o in qualsiasi altro modo? I bambini sono maestri in questo.

Passo passo mi accorgevo che le chiusure iniziali si scioglievano, in tutti. E così, ti guardi intorno e cogli nei compagni di danza una forma di soddisfazione, di autogratificazione; percepisci che anche loro sono usciti da un disagio e lo vedi dagli sguardi scambiati, dai sorrisi e dal tono della voce meno incerto. L’imbarazzo individuale, così simile per ciascuno, provato all’inizio scompare e si ritrova una comunità di intenti grazie alla quale ognuno è riuscito a superare quella barriera che pare solo tua ma che è di tutti, o quasi. Facendosi carico del proprio coraggio di osare, si raggiunge un senso di stupito appagamento che diventa motore per acquietare il giudizio interiore e godere insieme la danza e i suoi frutti.

Cosa resta della danza?

Spesso questo danzare è fatto di gesti che provengono da un pensiero, cosicché buona parte di essi assumono un senso. Questo modo di esprimere i tuoi intimi pensieri è portatore di  benessere e tale benessere non si limita alle due ore di esperienza ma trasmigra nella vita, nei giorni, nelle relazioni. Ed è così che succede che, magari, non hai paura a guardare l’altro e senti di avere radici che ti permettono di andare avanti con una rinnovata consapevolezza. Se per tutti la danza diviene una strada per cambiare intimamente, anche dentro al carcere è occasione per maturare nuovi sentimenti, pensieri, modalità di stare in quel luogo. Spesso, durante lo spazio di condivisione, i detenuti hanno espresso un senso di libertà pur non essendo, di fatto, liberi. Come mai? Ma perché questa danza non è data solo dai movimenti che possono essere inconsueti, ma da un muoversi attraverso il quale tu puoi dire ciò che hai pensato e non hai mai detto. Danzando lo puoi esprimere in piena libertà. Si porta in vita un linguaggio unico, personale che cerca di abbattere codici prestabiliti e che si inserisce nel quotidiano vissuto. È un processo di maturazione individuale attraverso il corpo in movimento  e che interroga, per quanto riguarda il detenuto, anche il modo di vivere nel carcere a partire dal senso di responsabilità  di cui nella danza si fa esperienza. È un processo che chiede tempo, desiderio e coraggio di lasciarsi trasformare dall’esperienza della danza, forse più facile per chi non vive il carcere, più complesso per chi invece vive la condizione della detenzione in quanto il limite contrapposto alla libertà è pane quotidiano. 

Ciascuno unico e insieme

La danza esprime la condizione per cui ogni persona è unica e nello stesso tempo è parte di una comunità danzante. Si fa esperienza del valore di ogni singolo soggetto umano e si comprende l’importanza della condivisione nel gruppo. Sviluppa il senso della propria unicità e nel contempo unisce. I passi si fanno incerti quando compare la tensione di prestazione. Dimostrare qualcosa a qualcuno o a se stessi. Ma si fa anche presto a sciogliere il problema: nessuno è chiamato a dimostrare qualcosa; si danza per toccare ciò che si è non ciò che si deve. Impari non solo a non giudicare ma anche ad accettare la diversità che si incarna in ciascuno di noi. La danza può portare all’apertura del possibile.

Il corpo che danza diventa un tragitto, una via di maturazione personale di dimensioni esistenziali profonde. Il corpo come mente. Il danzare come messa in gioco di una unità corpo pensiero spirito. Quel gesto dice “ah però… ti riconosco nella tua interezza”. Ti offre l’occasione per dire le cose senza forzatura senza costrizione… esprimere la gentilezza con un movimento perché semplicemente sei gentile. 

Guardando questi 10 anni

L’onestà è da sempre un principio morale per me importante. Con questa esperienza tale principio, se prima pur fondativo della mia vita, era tuttavia solo una parola, in questi dieci anni ho imparato che esso si può esprimere con sempre maggior chiarezza. Dunque ho imparato l’onestà di dire quello che penso senza offendere. L’onestà di saper dire di no. L’onestà di saper dire di sì. Questa esperienza mi ha  tolto tante paure. La paura di muovermi in piena libertà. La paura di mostrarmi per quella che sono non solo negli atteggiamenti aggressivi ma anche in quelli delicati.

Mi ha anche risvegliato tanta voglia di conoscere, conoscere, conoscere. Persone, cose, storie, fatti. Imparare è una condizione per me fantastica e farlo insieme ad altri raddoppia il piacere. Se voglio imparare l’inglese, non mi piace farlo da sola, mi piace imparare l’inglese insieme agli altri. Se desidero visitare posti nuovi, sì lo posso fare da sola, ma è molto più interessante condividere. Conoscere insieme agli altri: una possibilità che ho scoperto nel tempo. Tendevo ad isolarmi, non perché fossi solitaria ma, ho capito poi, che  isolandomi magari qualcuno si sarebbe accorto della mia mancanza. Quindi la stessa storia: volevo stare con gli altri. Una fragilità… certo, ma nel momento in cui la riconosci ti liberi.

Questa con Lyria è stata ed è un’esperienza fondamentale, soprattutto nella maturazione del senso del rispetto verso l’altro chiunque esso sia. Dare rispetto per riceverlo. 

Un gesto più di tutti

Rotolare, rotolare insieme all’altro.
Amo parlargli toccando.
Amo mettere la mia fronte contro la tua per dirti che sto bene con te.
Toccarsi con un braccio, con un ginocchio, con un piede, con un gomito.
Il gesto è il tocco 

Un autoritratto

Un albero.
Amo gli alberi
amo gli alberi ultracentenari
rugosi, pieni di nodi
con radici che sporgono dal terreno perché ormai non riescono ad andare più a fondo.
Un albero.
Vorrei essere un albero con un diametro impossibile da misurare.
Pieno di nodi ferite rughe cortecce che si staccano.
O un delfino, simbolo di vitalità, curioso e un po’ dispettoso..
Ma anche una tartaruga, quel musetto un po’ strano e non sempre gradevole
ma nel quale un po’ mi riconosco, perché rinnegarlo?

 

Nuvole

Guardo il progetto nel carcere di Verziano e lo vedo come fosse una serie di nuvole in continuo cambiamento. Nuvole temporalesche; soffici nuvole in un cielo terso; nuvole rosate al tramonto. Nuvole che prendono tante forme. “Vanno, vengono, a volte si fermano…”

 

Il Vocabolario dell’esperienza a Verziano

A

apprendimento, ascolto

B

benessere

C

cambiamento, condivisione, corpo,  custodire, custodito

D

danza, detenzione

E

esprimersi, elevarsi, evoluzione

F

fiducia, fare

G

gesto

H

happy

I

insieme, insolito, incontro, ironia

L

libertà, limiti, linguaggio

M

movimento, mente

N

novità

O

opportunità

P

possibilità

Q

qualità, quesito, quantità

R

ricerca, responsabilità, rispetto

S

stupore, sentimento, sensibilità, sostanza

T

tocco, tendere

U

unicità (della persona), unione

V

volontà, vivacità, verità

Z

zigote (il progetto è come una cellula in evoluzione)

 

 

Anno 2020 | Progetto Verziano 10^ edizione
Raccoglitrice di storie: Ludovica Danieli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.


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