Siamo tutti dentro
Ho conosciuto il Progetto Verziano di Compagnia Lyria per caso, ma, forse, nulla accade per caso. Era l’anno 2015, mi ero da poco laureata alla triennale, a settembre, in Psicologia.
Un giorno mi sono messa a sfogliare il giornale: il mio sguardo è stato catturato da un trafiletto che parlava di questa esperienza, che era già nelle edizioni avanzate, in cui si proponeva alla cittadinanza di entrare in carcere per il “Progetto Verziano” di danza contemporanea.
A quel tempo non conoscevo Giulia Gussago. Cercai di approfondire la conoscenza dell’iniziativa e di chi la proponeva, perché mi è sembrata da subito una bella occasione.
Sentivo che mi avrebbe coinvolta sia per l’amore per la danza, che è un’arte che mi ha sempre accompagnato, sia per l’interesse per il carcere, ambiente che avevo iniziato a conoscere perché avevo affrontato problematiche legate alla giustizia, proprio negli ultimi due anni della triennale all’Università.
Entrare a far parte del Progetto mi risuonava come un’opportunità per mettermi in gioco: sia per il tipo di proposta, sia per il luogo in cui si attuava, sia per i valori di fondo che io condividevo e condivido fortemente.
L’incontro tra il “dentro” e il “fuori” mi corrispondeva; andava a cogliere il nucleo di quella che era la mia idea dei rapporti tra società civile e reclusione. Ecco perché ho seguito anche negli anni successivi alla mia partecipazione diretta le iniziative di Compagnia Lyria a Verziano.
La danza, il gesto e il movimento come modalità di relazione, brillava ai miei occhi come una preziosa possibilità, a me che venivo dallo studio della psicologia dove l’incontro passa attraverso la parola.
Il primo ingresso nell’edificio del carcere non è molto vivido nei miei ricordi, ma questo deriva dal fatto che non era proprio la mia prima volta a Verziano: avevo già varcato quella soglia grazie ai progetti che facevamo con l’università.
E’ un carcere che si è sempre contraddistinto per la sua grande apertura, sotto tanti punti di vista.
La sensazione che prevaleva in me quel giorno era la familiarità.
Il senso di familiarità veniva dall’accoglienza che ho ricevuto e alle persone che ho incontrato; si avvertiva tra di loro, che erano già habituè di questo percorso, che ci aspettavano, che il nostro ingresso aveva il sapore del riunirsi, con Giulia e con le altre persone del Progetto.
Mi aveva molto colpito questa attesa.
Prevaleva una sensazione molto positiva, cioè sentivo di entrare in una storia che era già anche consolidata; mi pervadeva la sensazione di essere entrata a far parte di una grande famiglia.
Vivevo in me anche un certo timore, che derivava da un forte senso di responsabilità.
Quando si entra in carcere da fuori, si entra come se stessi, ma anche in rappresentanza di qualcosa di più ampio: sono Erica, ma nello stesso tempo porto con me la rappresentazione di ciò che sono le persone che vivono fuori. Attraverso me chi è “dentro” legge il mondo di “fuori” e la consapevolezza di questo fatto mi spingeva ad assumerne tutta la responsabilità nel mio agire al meglio delle mie possibilità.
Quando parlo di questo progetto ad altri e spiego che a Verziano, che è un carcere, uomini e donne possono sperimentare la danza Contact, quindi avere dei contatti danzando, metto in discussione una serie di tabù.
Per chi sostiene che in carcere questo tipo di attività “non si può fare” io sono una testimone che sì, “si può fare” e attraverso l’esperienza vissuta da me le persone fuori hanno l’opportunità di rivedere i loro pre-giudizi, le idee che si sono fatte sul “dentro”.
Il fatto che si rompe la “bolla prossemica” e che si entra in un contatto fisico che supera ogni distanza di sicurezza, certo pone il problema dei limiti ed era importante tenerli in considerazione.
Essere entrata altre volte in Verziano, e con una certa frequenza, smorzava l’effetto raggelante di chiusura che danno i catenacci, i cancelli, i controlli.
Il protocollo per entrare poi, rendeva evidente il contesto nel quale ci stavamo per immergere; non si poteva ignorare il fatto che era un carcere, che c’erano limiti e confini da non superare, obblighi e divieti da rispettare in modo ferreo.
Il cellulare, poi! Quante volte si controllava e si ricontrollava se si era lasciato in auto, oppure no!
La danza, così come veniva proposta da Giulia, inizialmente apriva in me molte domande.
Avevo intuito che qui si trattava di mettersi proprio in gioco: il suo modo di proporre la danza è una educazione al sentire, il movimento è conseguenza di quanto tu riesci a stare in contatto con te, con ciò che ti accade intorno e con gli altri. Questo è ciò che viene generato dal contatto e quindi è il movimento stesso che “unisce”.
Si smontava immediatamente l’idea che solo alcuni potessero danzare: il gesto è una cosa di tutti. Tutti in qualche modo un po’ danziamo e averne consapevolezza è una cosa importante.
Per la prima volta, sono stata al Teatro Sociale dall’altra parte (c’ero stata, ma dalla parte del pubblico) e sono felice che questa occasione si sia presentata con quel gruppo, con quelle persone. Una così bella esperienza, una bella esperienza umana proprio, va messa in risalto e presentata alla cittadinanza.
Ho praticato la danza per anni, sempre in una dimensione di gruppo e sempre con le stesse persone, e pensavo che il livello di complicità che si raggiunge viene dal fatto che si lavora per tanto tempo insieme.
E’ stata grande la mia sorpresa nello scoprire che nel corso del Progetto, nei momenti dell’improvvisazione, quindi nel caos, si intrecciavano momenti di intesa e di complicità incredibili ai miei occhi.
La danza proposta da Giulia, anche se concentrata nel poco tempo a disposizione, un pomeriggio o due alla settimana, ti porta ad andare in profondità molto velocemente e ti chiede di essere molto ricettivo.
E’ una danza che unisce.
Ricordando l’anno in cui ho partecipato, posso dire che esso si caratterizzava per il fatto che venivamo da mondi diversi: insieme a me c’erano anche persone che venivano da scuole di danza, (Barbara, per esempio, che adesso aiuterà a Giulia e Valentina nel portare avanti il progetto), così come c’erano altri che la affrontavano per la prima volta.
Questa differenza non ha mai messo dei muri tra di noi. Tutti possiamo danzare, se stiamo in ascolto e ci muoviamo secondo il nostro sentire. Questa è la grande forza di questa proposta.
Ho partecipato per due anni. Il primo quello nel 2015/2016 e poi ho partecipato all’edizione del 2018/2019.
Quando ho iniziato non sapevo bene cosa aspettarmi, temevo di trovarmi in difficoltà. Tutta la formazione che avevo ricevuto fino ad allora era improntata alla trasmissione di una tecnica, secondo canoni precisi, qui invece ero chiamata a confrontarmi con una nuova impostazione dove l’improvvisazione era un elemento cardine.
Certo ho incontrato delle difficoltà, però meno del previsto, perché mi sono sempre sentita molto guidata, sia da Giulia sia dal gruppo, dal clima che si era creato nel gruppo.
L’altro timore che avevo, ed è un timore che proprio mi contraddistingue anche come persona, è legato alla questione dei “limiti”.
Pensando al carcere come luogo dove il contatto umano è davvero necessario e allo stesso tempo è un grande assente, sentivo di volermi mettere in gioco tanto e capivo che sarebbe emersa forte l’esigenza di ricercare un contatto umano che andasse al di là anche della proposta di danza.
Un episodio che ricordo: nell’anno in cui ho partecipato, noi entravamo nel carcere, ma, in un paio di occasioni o forse qualcosa di più, qualcuno dei detenuti, che aveva i requisiti per farlo, poteva uscire per partecipare al Progetto fuori, nella palestra dove c’era Compagnia Lyria ai tempi e mi è capitato di doverli riaccompagnare in carcere alla fine dell’incontro. Vivevo con piacere quei momenti, ero contenta di rendermi utile e disponibile, erano dei momenti proprio liberi, di incontro sul piano umano, ma erano anche quelli che poi sollecitavano in me domande e questioni su che tipo di risposte dare.
Essere una ragazza, giovane, femmina,(e proprio qui il genere lo sottolineo), è una parte della relazione che porta con sé delle attenzioni, è un po’ come se ci fosse anche un pezzettino in più da gestire.
La mia gentilezza, perché io sono una persona gentile, va anch’essa gestita.
Ho imparato, grazie al percorso compiuto quell’anno, a non dare troppo per scontato il modo di pormi in certi contesti, a vivere la mia presenza, le mie caratteristiche anche fisiche, con meno leggerezza, soprattutto nei momenti un po’ destrutturati, non perché dovevo tirare freni, ma per una forma di rispetto per loro, perché una parola detta, oppure un cenno, lo posso fare con una certa tranquillità in alcuni contesti, ma all’interno di altri assumono un altro peso, un altro spessore.
Un’altra aspettativa, magari più banale, riguarda il mondo di fuori.
Nel trafiletto del giornale c’era scritto che il Progetto sarebbe stato articolato su tre versanti: una parte si sarebbe svolta solo con i detenuti, una parte al Teatro Sociale, e una parte prevedeva che la cittadinanza entrasse in carcere.
Io pensavo dentro di me a quante persone avrei voluto invitare, perché già questo mio interesse per il carcere stava maturando e magari in casa o agli amici spesso ne parlavo. Era l’occasione perfetta per chiedere loro di provare: “Venite, vedete anche voi che cosa può nascere in un carcere, in un luogo che noi teniamo in mezzo ai campi, lontano, come se non vedendolo non esistesse, invece c’è. Esiste e ci può essere anche in un bel modo”.
Nasceva l’aspettativa di fare anche qualcosa più nel concreto rispetto al “rompere veramente i muri”, cioè smontare pregiudizi e barriere culturali.
Era come se mi sentissi un foglio bianco, avevo voglia di un nuovo inizio. Più che un’aspettativa, era proprio un po’ un “motore” che mi spingeva ad esplorare nuove possibilità.
Io sono una persona organizzata, controllante, ma qui si trattava di mettersi in gioco, di scoprire cose nuove, anche di sé.
La tecnica della “ Contact improvvisation” che si basa sul gesto del tocco, è stata una folgorazione. Con Giulia siamo partiti da questo: dal movimento che si genera a partire dall’unione tra persone.
E’ una danza che unisce.
Io penso che l’arte sia un mediatore.
Ho sperimentato che la danza, così come altre attività artistiche, sia proprio una sorta di “ponte”. Non si usa la parola, ma questo non significa che non si entri in profondità.
Nella danza, in questo tipo di danza, ti è chiesto di esserci con il corpo e di dire il tuo nome. Non serve altro.
Chi siamo, le nostre identità, si svelano attraverso il movimento e lavorando spesso a coppie o in gruppi, ognuno di noi sente anche con chi ha più affinità.
Si crea uno spazio di libertà.
Anche le persone detenute sottolineano questo.
Tutti noi abbiamo un nome e un corpo, siamo sullo stesso livello e ci muoviamo entro questo spazio secondo il nostro sentire, seguiamo tutti le stesse indicazioni, ma ognuno secondo il proprio essere.
Vivere uno spazio di libertà dove tutti possiamo essere ciò che siamo è una cosa potentissima; non solo per chi vive in un contesto di privazione della libertà, ma anche per noi.
Certo, chi è detenuto è privato della libertà fisica, ma anche noi fuori viviamo una privazione di libertà. Penso alle nostre routine, alle nostre cose da fare, alle gabbie delle categorie in cui siamo costretti.
Il fatto di essere lì, con i nostri corpi e vivere la stessa esperienza artistica e creativa, anche per me e per le persone che venivano da fuori, ha rappresentato un vissuto di libertà che non ci è concesso in altri spazi.
Sperimenti sulla tua pelle, e con altri, qualcosa di diverso di te. Per chi è dentro significa anche portarsi fuori dalle dinamiche di sezione, per esempio.
Partendo dall’assunto che “tutti lo possono fare”, la danza diventa liberante e aggregante.
Il periodo di chiusura per il Covid mi ha portato a fare questa riflessione sulla bellezza: le cose belle sono belle perché sono comunicative, più delle parole. E noi cerchiamo le cose belle.
Ciò che fa vivere un’emozione profonda, ci fa sentire vivi.
Penso alla danza, penso all’arte che è bellezza, è creare e generare bellezza.
E in un ambiente come è il carcere, per chi è “dentro”, è ancora più importante incontrare l’arte, la bellezza.
E per noi, fuori, pensare di creare con chi è dentro, è bellissimo.
Rivela che è necessario andare in controtendenza su quello che si pensa del carcere. Allora è facile rispondere alla domanda: La danza, perché? Perchè è bella, punto.
La partecipazione al Progetto ha modificato il mio modo di pensare alla danza.
Anche il mio approccio all’insegnamento della danza alle più piccoline è cambiato.
Ora mi sento libera di sperimentare, e so gestire anche proposte di libera improvvisazione.
La legittimazione della libertà del gesto e della libertà di fare quello che si sente in quel momento, è sicuramente una cosa molto forte, e l’ho appresa nel percorso del Progetto Verziano.
Oserei dire che nella libertà si realizzava anche la presa di responsabilità da parte di tutti e di ciascuno. La libertà di cui sto parlando è la “libertà di” essere, non la “libertà da” ogni regola.
Al contrario, i valori del rispetto e della reciproca attenzione e cura vincolavano i comportamenti di tutti e tutti si impegnavano ad attenersi alle regole di comportamento che discendevano da essi.
Tutti hanno compreso che senza questa disciplina non avremmo costruito la nostra stessa libertà, e nemmeno avremmo potuto continuare a danzare bene insieme.
La continuità
Si è rinnovata in me la convinzione relativa a quanta continuità ci fosse tra dentro e fuori il carcere. Percepivo la continuità, come se i muri, fossero solo dei muri fisici.
Sentivo che l’energia che si respirava o si viveva, o ci si passava attraverso il movimento, trapassava i muri e continuava nel nostro essere fuori, non c’era nessun grado di separazione dal punto di vista spirituale.
Questo vissuto ha lasciato in me un segno importante e ha rafforzato un pensiero che sto maturando da tempo: la continuità tra il “dentro” e il “fuori” esprime la totalità del nostro vivere sociale e non possiamo vivere bene “fuori” se non miglioriamo anche il vivere “dentro”.
Questa nuova consapevolezza mi spinge ad approfondire ancora di più lo studio delle azioni concrete che possiamo mettere in atto affinché vengano abbattute quelle barriere sociali, quei pregiudizi e stereotipi che tendono a chiudere e separare dal mondo le persone che hanno sbagliato, come se fossero “altro” rispetto a chi è fuori. Diverse sono le storie di ciascuno, ma la storia di uno potrebbe essere dell’altro.
Mi proietto così in un futuro, anche professionale oltre che personale, che mi vede investire le mie energie e le mie capacità nell’ambito della giustizia e del cambiamento dei suoi strumenti, affinché prevalga un’ottica di inclusione, perché mi è chiaro che solo così potremo vedere un mondo migliore.
La Bellezza
Anche la Bellezza è un segno che il Progetto danza di Compagnia Lyria mi ha lasciato.
Non si trattava del “bello” così come viene esteticamente definito dai comuni canoni. Era qualcosa di più, qualcosa che afferisce al mondo dell’etica, della finalità.
Ho assistito, in compagnia di mia madre, alla restituzione degli ultimi due anni che Compagnia Lyria ha presentato recentemente al Nuovo Eden. A causa del Covid sono stati anni difficili un po’ per tutti, ma il commento che è affiorato alle nostre labbra è stato: “Ci siamo lamentati noi della chiusura, però per qualcuno è stata veramente più dura”. Proprio per questo dato di fatto ho apprezzato ancora di più quanto ha fatto Compagnia Lyria in questo frangente. E’ bello pensare a come siano stati in grado, in questi due anni di pausa, di mantenere un contatto col dentro, a che cosa ha rappresentato tutto ciò.
Provo un po’ di rammarico per non aver partecipato a tutte le edizioni, tuttavia devo dire che anche da spettatrice mi sento coinvolta.
Penso che ciò accada per la grande passione che nutro per la problematica del carcere, oltre che per la danza.
Compagnia Lyria è riuscita a comporre una proposta completa, perché coinvolge tutti, ognuno nella misura in cui vuole darsi, o può.
Ricordo i due momenti finali del Progetto cui ho partecipato. Al Teatro Sociale, il primo, ed è stato bellissimo.
Alla fine dello spettacolo cadevano dall’alto dei vestiti, tutti li indossavamo, ci vestivamo in modo colorato, giocavamo fra di noi. E’ stato molto bello, perché vivevamo il gioco con la sensazione che la platea sparisse dai nostri pensieri. Giocavamo e l’importante era stare bene tra di noi.
La gente guardava e percepiva questo: che c’era un gruppo di persone che stava bene insieme, che si sentiva unito da un senso di appartenenza così forte da vivere il gioco in perfetta armonia e reciproca intesa.
La cosa più bella però è che, da fuori, non si capisce chi è chi, siamo tutti uguali, e la platea, che inizialmente se lo chiede, ma non riesce a distinguere quali siano i detenuti e detenute e quali siano le persone che vengono da fuori, alla fine smette di chiederselo.
Questo è un importante punto di arrivo, perché apre le menti alla consapevolezza che siamo tutti persone e che le differenze tra noi non sempre si vedono e non sempre sono importanti.
Sin dal primo giorno del Progetto si segue questa finalità e lo spettacolo rispecchia l’intero percorso, lo esprime in modo completo di fronte alla cittadinanza. Spesso chi guarda rimane senza parole. Lo sguardo esprime la gioia di avere assistito ad un’opera d’arte “bella”.
Il secondo spettacolo è stato realizzato sul prato di Verziano. Si è creata un’atmosfera di magia quel pomeriggio.
Il pubblico era intorno e noi eravamo dentro una sorta di cerchio invisibile. Eravamo impegnati su di noi, a malapena ricordavamo di avere qualcuno che ci guardava. L’idea che ci guidava era quella di fare le cose bene tra di noi. Si è realizzata un’intesa talmente intensa che ogni movimento era in sintonia con quello degli altri al punto tale che chi guardava pensava fosse tutto frutto di una precisa programmazione.
Era, invece, frutto dell’improvvisazione, ma ciò che siamo riusciti a fare insieme difficilmente riesce laddove manca questo spirito di gruppo e questa armonia del sentire.
Chi è venuto a vedermi ha esplicitamente posto la domanda vedendo quanto ero riuscita a fare sospesa sulla sedia insieme ad un ragazzo del gruppo. Pensava ci fossimo messi d’accordo prima.
Ma io penso che non sarei riuscita a danzare in modo così elevato se non avessi percepito l’energia che ci legava e ci faceva muovere in sintonia. Eppure era da poco tempo che danzavamo insieme, non avevamo alle spalle anni di studio comune, bensì i pochi incontri settimanali che ci erano concessi.
La domanda: “Vi eravate messi d’accordo?” trova una risposta negativa, perché l’improvvisazione si snoda secondo itinerari sempre nuovi e imprevedibili.
Eppure noi ci capivamo.
Poi le cose accadevano e accadevano ogni volta in modo diverso. Si creava una figura coreografica talmente bella, da suscitare l’ammirazione di chi guardava, ma noi stessi non saremmo riusciti a spiegare con le parole come si era costruita.
Il gruppo che aveva condiviso questo modo di stare insieme danzando, si percepiva come unità, e se accadeva che qualcuno non scendesse a lezione per qualche motivo, non si sentiva completo.
La scrittura
Ci siamo soffermati tanto sulla danza, ma c’erano anche momenti di scrittura.
Non era un corso di scrittura, bensì era una scrittura libera, autobiografica, guidata da suggestioni letterarie e non, ma con stimoli che servivano a metterci tutti sullo stesso piano. Quindi il fatto che uno facesse più fatica a scrivere di altri, non era una cosa che pesava.
In coerenza con la proposta della danza, ci venivano proposti strumenti di espressione adatti a farci sentire tutti allo stesso modo, a non far sentire penalizzato nessuno e così tutto dipendeva da quello che ognuno ci voleva mettere. La sospensione del giudizio è la regola di questo tipo di scrittura.
Il tempo
Quando facevamo il laboratorio di danza a Verziano il tempo aveva tutta un’altra accezione, era un tempo diverso. Era scandito solo dal richiamo della guardia che annunciava l’ora di chiusura del laboratorio.
Il tempo, in quello spazio di libertà, era un tempo “sospeso”, come se proprio lì in quell’ambiente di chiusura, si creasse una bolla, dove tu sai che intorno le cose vanno avanti, ma tu ti senti in una dimensione “altra”.
Giulia
Quando ci sono persone, come Giulia, che mettono l’arte “a servizio di…”, avviene una cosa molto rara: nel corso degli anni non c’è stato cedimento, la coerenza con i valori dichiarati non è mai venuta meno e il tempo non ha scalfito la linea di conduzione dei laboratori. I principi guida di questo tipo di danza sono gli stessi, dall’inizio alla fine del percorso: anche a fronte di uno spettacolo da portare davanti al pubblico le correzioni sono note tecniche molto semplici, che non vanno a costringere i gesti o i movimenti dei partecipanti. Sono più richieste di attenzione che altro. E così ha trasmesso anche a noi questo stile di reciproca attenzione e di rispetto.
Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Piera Milini
Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari
La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.