Sguardi Attraverso | Testimonianza di una detenuta
(RI)TROVARE LE PAROLE
Premessa dell’intervistatrice:
Questa testimonianza, come tutte quelle raccolte in periodo pandemico, è avvenuta attraverso collegamenti Skype con il carcere.
Nel corso del primo incontro con Arianna*, in data 18 febbraio 2021, l’agente viene al computer e con velocità interrompe la comunicazione per un’urgenza. Io non faccio in tempo a salvare la registrazione su Skype e…mi dispero per non aver attivato il mio registratore sul cellulare. Per fortuna avevo salvi i miei appunti cartacei e soprattutto impressa nella memoria la tonalità di questo dialogo.
Arianna* si presenta sorridente, desiderosa di questo incontro, pur in uno spazio ristretto come quello di uno schermo.
Appare il suo volto dopo il brevissimo saluto dell’agente di polizia, una donna bionda che fa da mediatrice.
Preferisce non dire molto di sé: si sono abituati così in carcere, a questa reticenza, o riservatezza, per difendersi da uno stigma che non viene meno nonostante gli sforzi della comunità.
Io le dico semplicemente che mi chiamo Francesca e che faccio l’insegnante di lettere. L’informazione sulla mia attività professionale la fa sobbalzare: “Che bello! Anch’io da che son qui leggo moltissimi libri…”.
Nel parlare ad un certo punto non trova la parola che cerca e si ferma a commentare: “E’ la carcerite, come la chiamiamo noi! La malattia che ci prende quando stiamo qui un po’: quella di non riuscire a trovare le parole, ad esprimerci… Dimentichiamo tante cose…”.
Le chiedo come mai ha deciso di partecipare a questo Progetto: “Soprattutto per farci conoscere all’esterno… La gente ha pregiudizi. La Compagnia Lyria ci ha dato importanza, così come tutti i volontari che sono per noi. E’ bello… Io vorrei testimoniare questa esperienza…”.
A. torna sul tema della difficoltà di esprimersi in carcere: dice che si sviluppa una specie di lingua interna; pochi sono gli italiani e si mescolano tante lingue, si trova il modo di comunicare lo stesso, come un codice nuovo, ma manca una identità. Manca l’”identità parlata”! Capisco che è importante, per sentirsi a casa, anche sentire un idioma proprio…
Ma questo Progetto permette di farsi capire e di comunicare anche “all’esterno”: “Mi piacerebbe che si capissero le nostre problematiche”.
“Mi ha attirato questo Progetto anzitutto perchè ci davano la possibilità di stare insieme maschi e femmine… Non è semplice: dopo un po’ che si è qui, si hanno bisogni anche affettivi – si può capire… L’educatrice ci ha detto che si poteva scrivere una domandina e io l’ho fatto… Ormai è 4 o 5 anni che partecipo”.
Com’è andata la prima volta?
“All’inizio è stato difficile…entrare in quella palestra enorme, davanti a tutti…un senso di vergogna…gli altri mi conoscevano e magari pensavano: “Ma guarda quella che vuol fare danza…”.
Poi però le conduttrici sono state meravigliose!
Ci hanno aiutato ad esprimere le nostre emozioni, sia verbalmente che col movimento.
In quell’ora eravamo persone unite da un obiettivo comune, eravamo uguali! E anche spiritualmente: c’era calore!
Qualche volta non avevo voglia di andare agli incontri: c’è pigrizia qui, o magari c’è il capriccio di non fare una cosa. E’ vero, in carcere c’è anche la scuola, ci sono attività di lavoro…però c’è anche la pigrizia dello starsene lì in cella, sul letto… Ecco, con Lyria noi abbiamo avuto la possibilità di andare all’esterno con lo spettacolo al Teatro Sociale! E’ stato come avere una rivincita sulla vita”.
“La prima volta che abbiamo fatto danza è stato nel 2013, ho pochi ricordi, ma di sicuro sono scesa arrabbiata! Volevo solo sfogarmi. Poi quel gruppo è diventato una famiglia! C’era affetto tra noi”.
Come è l’esperienza della danza?
“Ci proviamo!”. “E’ un movimento che viene da dentro. Le emozioni escono in questo modo, non ci preoccupiamo della forma.
E lo spettacolo all’esterno del carcere ci fa sentire uguali tra noi (detenuti, conduttori, anche le guardie carcerarie sono state stupende…) e uguali agli altri che ci guardano. Durante lo spettacolo non ci sono differenze. Qualsiasi cosa che tolga le sbarre: questo è il desiderio. Io sono stata catturata. E tutto poi è diventato una catena: ci si coinvolgeva in questa realtà, ci si stimolava tra noi…. Dai, vieni…perchè stai lì a far niente…? Vieni giù…”.
Chiedo se in qualche cosa le sue aspettative sono state disattese.
“No! Io sono uscita meravigliata! Non mi aspettavo tutto questo…”.
Il “movimento” all’interno di una realtà come quella del carcere che cosa è?
“Noi qui ci chiudiamo, diventiamo ingobbiti. Oziamo e siamo anche apatici. Il movimento è quello che ci porta fuori… E poi la danza è anche uno sfogo. Noi qui di fronte alla sofferenza che proviamo tendiamo a dribblare…diciamo così nel nostro modo… La danza ci ha portato a stare di fronte anche al dolore…ci sono stati momenti difficili…”
Ci sono segni dentro di te che questa esperienza ha lasciato?
“Pensavo di essere sbagliata, ero complessata. La danza mi ha permesso di rivedere questa opinione di me stessa. Sì, abbiamo fatto un’opera d’arte!”.
Il secondo incontro, sempre via Skype, lo abbiamo potuto fare solo il 7 giugno 2021.
Arianna* inizia dicendo subito che l’altra volta “non ha detto nulla di sé” e vuole subito colmare la lacuna.
“Ho 58 anni; tra detenzione provvisoria e definitiva, è quasi 8 anni che sono in carcere; ho una condanna – non ho problemi a dirlo – per associazione a delinquere; il mio compagno è qui anche lui. Io ho una pena di 11 anni, lui ne ha presi molti di più. La mia famiglia…non so più….i miei genitori sono deceduti, dico fortunatamente perché se avessero saputo questa storia non so se sarebbero sopravvissuti. Quelli che fan parte della mia famiglia hanno rifiutato questa mia vicissitudine, per cui sono 8-9 anni che non li sento e questo non mi interessa. Ho conosciuto una splendida signora per la quale ho fatto da badante alla mamma (nel periodo in cui sono uscita dal carcere, perché ero incensurata: dopo un tot, se non sei processato, non puoi rimanere in carcere). Ho fatto da badante a sua madre e da quel momento si è affezionata a me, sapendo anche che avrei potuto rientrare in carcere. L’unica persona che mi sta seguendo è lei, con le sue figlie. E’ una splendida amicizia, quella è diventata la mia famiglia”.
Questo aspetto è molto particolare, molto bello…
“Sì, perché – non so se mi sono espressa correttamente la scorsa volta – come le persone che sono venute con noi detenuti a fare danza, anche questa signora dà molta fiducia. Forse ci sottostimiamo più noi che gli esterni…”
Dici che quasi siete più voi a pensare che gli altri abbiano pregiudizi, che non gli esterni?
“Effettivamente sì, io l’ho provato in prima persona. Come dicevo, dopo due anni che ero qua sono dovuta uscire, mi ha seguita una psicologa (quella di “Carcere e territorio”), perché io sono di Brescia, sono stata una commerciante e avevo perfino vergogna a camminare per strada. Un uomo detenuto viene anche accettato, ma la donna detenuta… Mi erano venuti dei complessi. Però quando sono entrata col definitivo ho visto da parte dei volontari, da parte degli esterni e da parte di questa signora con la sua famiglia che non hanno pregiudizi: loro conoscono la persona e di conseguenza… Perchè il nostro pensiero è sempre: quando usciremo ci accetteranno ancora?”
Ci sono delle cose, anzi, tre cose, tra quelle che mi hai detto la volta scorsa che mi hanno incuriosito e fatto pensare. La prima è quando hai usato l’espressione “la rivincita sulla vita”.
“La rivincita sulla vita è che, essendo in carcere, la persona si sente invalidata, sotto tutti gli aspetti. Perchè, è naturale, stai pagando uno sbaglio commesso. Il fatto di partecipare a uno spettacolo, sentirti importante, è la rivincita che tu provi dopo che hai vissuto la detenzione: anche il fatto di potersi presentare in mezzo al pubblico, potersi confrontare con gli esterni, poter eseguire dei movimenti (naturalmente grazie a Giulia e alle persone che ci hanno seguito…un grazie infinito a tutti, veramente!)”.
L’altra cosa che mi ha colpito molto è quando hai detto che “in carcere tendete a dribblare il dolore”…
“Ti faccio un esempio stupido: noi donne cerchiamo di non guardare riviste di moda, di non guardare film dove parlano di storie di bambini, cerchiamo di non ascoltare certe canzoni che ci riportano fuori. Cioè, qua cerchi di vivere non ricordando l’esterno. Anche adesso, nelle giornate soleggiate, cerchi di guardare il meno possibile fuori”.
Ma quelle privazioni, un film una rivista una bella giornata il sole, sono cose buone in sé…
“E’ una privazione per evitare di soffrirne la privazione…eviti il dolore il più possibile… Anche perché, come dico alle mie compagne, io cerco non di sopravvivere, ma di vivere, perché comunque è importante un giorno di vita!”
Che differenza c’è?
“Vivere è entusiasmarsi anche per una piccola cosa; ad esempio, oggi la mia compagna di cella mi ha portato dei libri da leggere e questo mi ha dato entusiasmo, mi ha dato uno stimolo. Poi mi ricordo sempre le parole di mio padre: non andare mai a letto senza aver imparato qualcosa di nuovo.
Il sopravvivere invece è alzarsi sempre apatici, fare sempre le stesse cose, non provare entusiasmo per niente”.
Questo è frequente?
“Sì, la maggior parte parla di sopravvivenza. Io continuo a ripetere: è vita! Specialmente dopo che abbiamo sentito quello che succedeva fuori: Coronavirus, malattie più gravi… Ogni giorno è importante. Anche se non sono praticante, io sono molto credente…”
Questo ti aiuta?
“Che cosa, Dio o il vivere?”
Essere credente…
“Beh, Dio è con me, anche perché altrimenti non riuscirei a sopportare…qua la difficoltà è la convivenza. Con altre etnie, culture, modi di essere. Se non avessi Dio, se non avessi questa voglia di vivere, perché…io voglio vivere… Per le piccole cose cerco di entusiasmarmi…dribblo il dolore e cerco la serenità”.
Hai detto una terza cosa l’altra volta: che magari per capriccio qualcuno non aveva voglia di scendere per l’incontro…inizialmente hai detto capriccio, poi hai detto pigrizia… C’è differenza, la pigrizia forse rientra in quell’apatia di cui parlavi…
“Il capriccio è dovuto al fatto che alcune di noi soffrono per mancanza di…pubblicità! Il capriccio è perchè vuoi che la compagna ti presti attenzione e ti dica: “dai, vieni, senza di te non mi diverto…ho bisogno di te, ci divertiamo insieme, fa piacere anche agli esterni vederti…” “Così crei importanza alla persona… La pigrizia invece è: che palle, devo mettermi le scarpe da ginnastica, magari fa freddo, magari fa caldo, sto qua, guardo la televisione, e solite cose…”
Quindi tu hai davanti ancora alcuni anni…
“No, no…io in teoria è da luglio scorso che aspetto di uscire; un mesetto fa è stata spedita la mia istanza e sto attendendo il responso del giudice…perchè, dato il mio comportamento, si hanno dei premi, ogni 6 mesi hai 45 giorni di libertà anticipata, se non commetti…scorrettezze”
Quindi stai aspettando di uscire!
“In teoria sì. Poi, in pratica, te l’ho detto: è da luglio che aspetto. L’educatrice mi ha detto così, ma poi c’è stato tutto il problema del Covid. Io devo avere un lavoro fuori: qua lavoro, ma è difficile avere la possibilità di un lavoro esterno. Col Covid – posso capire – rimangono senza lavoro le persone non detenute, dunque per me è più difficile”.
Che lavoro fai lì? C’è una fabbrica dentro?
“Faccio l’operaia. E’ parecchi anni, dal 2016, che lavoro per questa ditta all’interno del carcere, che fa assemblaggio. Si è fermato un po’ tutto con il Covid…infatti lavoriamo saltuariamente, però c’è questa azienda che ci aiuta molto ad uscire in preaffidamento e in affidamento, quando ti manca poco e hai un certo tipo di comportamento. E naturalmente se hai una casa. Io ho una casa del Comune, ho sempre pagato l’affitto, ci ho sempre tenuto ad avere un tetto sulla testa! Poi mi hanno aiutato gli educatori, perché è complicato avere contatti con l’ALER, con il Comune, eccetera…se non avessi avuto loro…”
Quindi vedi un po’ anche la luce in fondo al tunnel…
“Sì, vedo la luce…però, se anche avessi un no dal giudice va bene, ho fatto trenta farò trentuno, non è questo… Mi spiace che il mio compagno rimane qua…”
Ma lì potete vedervi?
“Allora, noi siamo una delle coppie che stranamente lavorano insieme!
“Non abbiamo contatto fisico, giustamente, però ho sempre avuto colloqui con lui; anche quando si trovava in un altro carcere, una volta al mese…. Non posso lamentarmi. Certo, non c’è il contatto fisico, ma…diciamo…ho anche una certa età, sarebbe assurdo farmi riprendere per…”
Senti, visto che il lavoro che stiamo preparando andrà in mano a dei ragazzi, gli studenti della Laba, che cosa vorresti dire a questi ragazzi, dopo l’esperienza che hai fatto? Sei grande, potrebbero essere tuoi figli…
“La stessa cosa che dico ai nipoti della signora di cui ti ho parlato: ragazzi, state attenti a non essere ingenui, a non far favori a gente ambigua; non fate uso di droga, perché vi toglie più di quello che vi dà. Magari sembra che dia entusiasmo, ma se ne vedono tanti di ragazzini giovani che si bruciano il cervello. Il mio terrore è quello… Io ho fatto uso di droga, lo confesso, anche se erano già dieci anni che non ne usavo più perché non mi dava quello che cercavo. Oggi ci sono in giro tante porcherie… La mia preoccupazione sono i ragazzi di oggi: ai miei tempi c’erano più cose, oggi vedo la società molto degradata e sono veramente preoccupata…”
Perchè dici che non devono essere ingenui?
“Forse perché è capitato anche a me, che han chiesto dei favori… e dopo mi son trovata nei pasticci… A 16-17 anni si pensa di poter fare delle bravate che non portino conseguenze. Invece i nodi vengono al pettine. Vorrei solo dire di stare attenti, perché il carcere ti porta via tutto. E vieni segnato per tutta la vita, per qualsiasi cosa: sia per il lavoro, perché hai sempre la fedina penale sporca, e poi il carcere veramente è duro, ci sono realtà che neanche ti immagineresti… E tanto di cappello agli assistenti e agli agenti, anche quelli che ci sono qua, sempre attenti.
Io fortunatamente o sfortunatamente non ho figli, perché altrimenti starei con un’ansia tremenda: vedo troppe ragazzine che…sono qua in condizioni estreme, per
droga, per sciocchezze, perché vengono accusate di rapina solo per aver preso una birra e magari aver maltrattato una persona. Sono cose assurde. Lo so, può capitare di passare col semaforo rosso, però se ci sono delle norme e delle regole è per il bene comune, vanno accettate: non è a essere fanatici che si risolvono le cose”.
Sarebbe bello aver la possibilità di diffonderlo, questo tuo appello, perché è veramente accorato…
“Io non sono capace ad esprimermi, ma andrei nelle scuole a spiegare questa mia esperienza. So che a 17 anni non si ascolta, però se si ha un po’ di cervello…”
L’altra volta hai sottolineato il fatto che lì non riusciate più a usare le parole, invece tu hai usato le parole in modo molto efficace e allora volevo andare a scavare per vedere che cosa c’era dentro/dietro.
“Grazie…volevo – se non faccio perdere tempo – fare un saluto particolare a Giulia e a tutte le persone che ci hanno seguito e che purtroppo, con la faccenda del Covid, non abbiamo potuto rivedere”.
Sicuramente, lo farò. Ti faccio tantissimi auguri per quella faccenda che stai aspettando, perché vada in porto bene…e per il tuo futuro.
“Grazie a te, e grazie per la pazienza.
*Per ragioni di privacy il nome Arianna è di fantasia
Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Francesca Bernacchia
Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari
La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.
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